A ritroso nell’oceano delle Variazioni brahmsiane
È indubbio che lo “spartiacque” nel pianismo di Johannes Brahms è rappresentato dall’op. 24, ossia dalle Händel-Variationen (che con le Goldberg Variationen di Bach e le Diabelli-Veränderungen di Beethoven formano l’ineludibile “trimurti” delle variazioni pianistiche), la quale diede modo al compositore di Amburgo di dare avvio a una sorta di “studi per pianoforte” sulla scia di quelli esplorati da Chopin prima e da Liszt poi, senza dimenticare ovviamente la lezione del suo mentore Schumann con i suoi Études Symphoniques. Spronato, in tal senso, da Clara Wieck, Brahms compose nel 1863 l’op. 35, le Paganini-Variationen, composta da due serie di variazioni che furono pubblicate due anni più tardi e presentate dallo stesso Brahms nel 1867 assieme allo Scherzo op. 4 e, naturalmente, agli Études Symphoniques schumanniani.
Se da un punto di vista della variazione di stampo classico le Paganini-Variationen non rappresentano una svolta o un radicale mutamento rispetto a quanto già esplorato da Beethoven con le Diabelli-Veränderungen, è altrettanto vero che nei due libri che compongono l’op. 35 Brahms vi immise quel tipico calore, quella pletora di emozioni timbriche, oltre a dotarle di quella straordinaria tecnica e conoscenza dello strumento che possedeva. Ed è proprio questo aspetto “tecnico” che ancora oggi le contraddistingue all’interno del corpus pianistico brahmsiano, in quanto la sfera tecnica che le permea risulta essere predominante rispetto alla minore “bellezza” musicale, limitandone quindi l’accessibilità e la fruibilità di esecuzione e di ascolto, che invece intridono le Händel-Variationen, ponendo di fatto a livello di difficoltà le Paganini-Variationen sullo stesso piano delle Diabelli beethoveniane e degli Études schumanniani, ma relegandole in un ambito in cui ad esserne esaltato è soprattutto il lato virtuosistico. Non per nulla, Clara Wieck, pur essendone affascinata, non nascose mai le sue perplessità sulla natura eminentemente tecnicistica di questa composizione, al punto di soprannominarla Hexen-Variationen (in tedesco Hexe significa strega).
Difficoltà e virtuosismi che nell’op. 35 devono essere ricercati proprio nel nome che le identifica, Paganini, che fin dalla prima metà dell’Ottocento venne identificato con il concetto stesso di ciò che risulta essere quasi ineseguibile, al punto da evocare nell’immaginario popolare la figura del demonio attraverso quella del grande violinista genovese e che poi trovò in Liszt l’alter ego in ambito pianistico. E se è vero che Brahms, componendo le Paganini-Variationen, non pensò certo di mettersi alla stessa stregua delle finalità pianistiche lisztiane, non si può negare il fatto che prima di affrontarne la scrittura ebbe modo, all’inizio degli anni Sessanta, di frequentare quell’autentico virtuoso della tastiera che fu Carl Tausig, uno dei più attenti e stimati allievi di Liszt, con il quale lavorò per qualche tempo su particolari esercizi e nello sfruttamento delle possibilità tecniche dello strumento. Probabilmente, fu proprio questo confronto con Tausig che permise a Brahms, proprio a partire dalle Paganini-Variationen, di applicare un innovativo assetto manuale sulla tastiera; assetto che non si basava più sulla velocità e sulla precisione di esecuzione delle dita, ma su come le mani avrebbero dovuto trovarsi posizionate nel modo più ottimale per affrontare i successivi passaggi di una scrittura sempre più articolata e complessa.
Quest’autentica parete di sesto grado della letteratura pianistica è stata registrata dal pianista parigino Ali Hirèche e pubblicata dall’etichetta Da Vinci Classics in un CD dedicato interamente a Brahms e che porta il titolo di Piano Variations, in quanto sono incluse anche le Undici variazioni su un tema originale in re maggiore n. 1 dell’op. 21, composte dal musicista amburghese nel 1857, e le Variazioni su un tema di Robert Schumann in fa diesis minore op. 9, scritte nel 1854.
La prima serie di Variazioni dell’op. 21, che si basa su un Tema originale e undici variazioni, fu ultimata da Brahms a Düsseldorf ed è già foriera di una maturità che si estende in tutto l’ambito della composizione, la quale procede dall’inizio fino alla fine in nome dell’affascinante coda finale la quale, oltre a riassumere idealmente tutta la pagina, la arricchisce di un’insolita spiritualità. È indubbio che con l’op. 21 n. 1 Brahms guardò verso l’ultimo Beethoven, con il preciso scopo di approfondire l’universo stilistico delle variazioni, le quali non potevano più essere colte nella frammentarietà dei singoli momenti, ma al contrario raccolte e proiettate nell’arco unitario di un unico respiro musicale e poetico. Da qui, si può comprendere ancora meglio per quale motivo Ali Hirèche abbia voluto, andando indietro nel tempo brahmsiano e nell’oceano delle variazioni, approdare, ponendo termine alla sua incisione, alle Variazioni su un tema di Robert Schumann, il cui Tema iniziale è tratto dai Bunte Blätter op. 99 del suo mentore. Perché è da questa composizione del 1854 (si presti attenzione alla data e al relativo modus operandi che prese avvio tra lo Schumann che precede di pochi mesi il suo crollo cerebrale, l’irruzione di Brahms, che a quell’epoca si compiaceva definirsi e firmarsi Johann Kreisler junior, sull’onda dell’entusiasmo provocato dalla lettura delle opere letterarie di E.T.A. Hoffman, e Clara Wieck, la quale diede inizio con il giovane musicista di Amburgo a un gioco di rimandi criptici, di allusioni colte, come d’altronde aveva già fatto in precedenza con il marito) che prende avvio quel lungo sentiero che vedrà una parziale conclusione proprio con le Paganini-Variationen.
Quindi, l’op. 9 è di fatto un lavoro nel quale si respira una continua aria di complicità, tra ricordi, pulsioni, desideri più o meno repressi, resi non con le parole o con le immagini, ma con un concatenamento armonico e melodico che trasuda simbolismi e allegorie, tanto da farne una pagina a dir poco “esoterica”, nel senso che è un’opera da intendersi non tanto rivolta a un pubblico “essoterico”, quanto a una ristretta cerchia di amici, in grado di comprendere attraverso le note. Non per nulla, sull’autografo alcune variazioni – per la precisione la quinta, la sesta, la nona, la dodicesima e la tredicesima – sono contraddistinte dalla sigla “Kr”, ossia proprio “Kreisler”, quasi come se lo spirito di Schumann aleggiasse sopra di esse, al punto da poter concepire questa pagina come un’opera nella quale Brahms volle riversare “medianicamente” l’interesse per lo spiritismo che aveva condiviso con il suo mentore.
A parte ciò, si resta colpiti come fin da questo lavoro, il ventunenne Brahms dimostra di avere la necessaria lucidità compositiva per ciò che riguarda il concetto di “variazione”, la quale non viene minimamente considerata come semplice e sterile sviluppo in chiave ornamentale e decorativa, ma come elemento sul quale indagare, approfondire, sistematizzare, per dare vita a qualcosa che possa differenziarsi senza tradire la matrice originale e originaria, ossia il Tema di partenza, vale a dire creando un’opera nell’opera e dall’opera, la cui continua invenzione non può che dare sbocco a un finale capace, allo stesso tempo, di riassumere tutto ciò che è stato presentato prima per essere formulato poi con altre voci, con un ennesimo approccio armonico-melodico. Come per l’appunto avviene con l’ultimo segmento dell’opera, la Variazione XVI, in cui viene rielaborato il basso del tema, evidenziandolo però con una voce nuova, mai ascoltata prima, attraverso un andamento stupendamente riflessivo, un pensiero sotteso ma lampante sulla fine dell’amico e del mentore, trasformando la coda in una sorta di meravigliosa “ninna-nanna funebre”.
Ora, da quanto si è delineato, si può capire come la scelta dei brani operata da Ali Hirèche non sia solo intelligente da un punto di vista interpretativo, ma si trasformi anche in una lezione di musicologia da ascoltare, partendo dal fatto che dallo sbocco ultimo del processo della variazione, i due libri delle Paganini-Variationen, il pianista parigino propone i passi precedenti, offrendo così un confronto sul solco di uno studio, di una ricerca, di un’indagine che Brahms portò avanti per circa un decennio partendo dall’op. 9. Ma il valore di questa registrazione non risiede solo in ciò. Si è detto che il grande cruccio dello stesso Brahms e di Clara Wieck, da un punto di vista esecutivo, è che le Paganini-Variationen rappresentavano sostanzialmente un prodigioso esempio di “ammodernamento tecnicistico” del pianoforte, tale da trasformarle in un saggio (involontario?) di stampo virtuosistico (ricordiamoci di quanto farà poi Rachmaninov con la Rapsodia su un tema di Paganini). Ebbene, nel suo progetto discografico Hirèche offre un diverso tipo di approccio che, invece di esaltare il mero lato virtuosistico, intende proporre una connotazione che sa maggiormente di “Studio”, ossia di “indagine”. E lo fa, prima di tutto, con un suono meticoloso, denso, accorto, frutto di una precisa elaborazione riflessiva prima ancora che manuale. Cosa che si avverte fin dalle prime battute del Primo libro dell’op. 35, in cui la dimensione stentorea, “tecnicistica”, viene sostituita da un afflato cristallino (Variazioni II, III e IV!) e da un timbro che legittima una ricerca, uno “studio”, per l’appunto, con i fff che vengono affrontati con vigore, ma senza estremizzare il gesto e giocando mirabilmente con i repentini cambi dinamici, mettendo in evidenza i contrasti di colore e non calcando sul colore stesso. A prima vista, sembrerebbe un Brahms poco tedesco e molto francese (com’era solito fare il grande Gieseking), ma è solo un’impressione data dal flusso continuo che il pianista parigino riesce a esprimere con il suo fraseggio, che però non cede mai a una leziosità che snaturerebbe tutto il discorso. Anche l’uso parco dei pedali permette di lavorare più sulle sfumature (e in ciò Hirèche dimostra di essere molto francese… ), ma che permette di “affrescare” meglio l’alternarsi delle zone d’ombra rispetto a quelle dove domina la luce accecante data dal lavoro del registro acuto. Così, sotto le mani di Hirèche, le Paganini-Variationen sembrano molto debitrici delle atmosfere sognanti e inquietanti del pianismo schumanniano, come a volerci dimostrare che l’op. 35 rappresenta la pagina in cui Brahms ultima il cammino con il suo mentore, omaggiandolo con una poesia struggente. Sì, perché c’è molta poetica in questo modo di proporre l’opera, così come c’è ironia, oltre a una pulizia diamantina con la quale il pianista parigino ci illustra la chiusura con la folgorante Variazione XIV del Primo libro. E se il Primo libro vanta una conformazione più “effettistica”, nella quale l’interprete ha voluto pennellare debitamente gli elementi chiaroscuri, nel Secondo la dimensione dello “studio” si fa ancora più pregnante, più articolata, permettendo a Hirèche di lavorare con un’agogica che, pur non deviando dal retto sentiero, per via di un legato e di una leggerezza timbrica sembra quasi dilatarsi, permettendo al suono di essere sì leggero, ma anche veloce e conchiuso. La sua lettura delle Paganini-Variationen ci porta quindi a considerare quest’opera non come il momento che porta al distacco da Schumann, ma come il compimento di un sentiero percorso parallelamente e idealmente con il suo mentore, la pagina attraverso la quale rendere compiuto un passaggio di testimone in nome non di una frattura, ma di una continuità.
Ecco, allora, che la proposta di presentare l’op. 35 con l’op. 21 n. 1 e l’op. 9 assume una valenza che permette all’ascoltatore attento di percorrere un viaggio à rebours con il quale affrontare il ritorno a Itaca delle variazioni brahmsiane, al cuore, all’essenza di un percorso che per essere affrontato al meglio nella sua proiezione futura, prima dev’essere fatto al contrario per cogliere al meglio ciò che poi lo sviluppo, lo studio, la ricerca del compositore amburghese farà nel corso del tempo in tal senso. E il denominatore comune, il DNA che Hirèche individua nel collegare le Paganini-Variationen con le sue precedenti Variazioni è proprio quello della speculazione attraverso la riflessione, dello studio in nome del ricordo, della ricerca che è fonte di rispetto e di ammirazione per colui che lo lanciò nel firmamento della notorietà, di un novello Beethoven che avrebbe portato a compimento tutto ciò che il classicismo aveva lasciato ancora insoluto.
Attraverso un timbro che è levigato, plasmato su rotondità quasi impronunciabili, il pianista parigino propone quindi un viaggio à la recherche du son retrouvé, fornendo all’ascoltatore panorami offuscati eppure precisi, lontani ma palpabilmente vicini, in cui la ricerca dello sviluppo, l’approfondirsi dell’articolazione, la progressiva scoperta di una nuova manualità si confondono con l’elemento emozionale, di un miracolo artistico in cui studio ed atto creativo si serrano sempre più l’uno con l’altro. La pregevolezza, la positività di questo tipo di lettura vengono impreziosite anche dal fatto che Ali Hirèche riesce sempre a non trasformare il pianoforte in un microscopio, ossia a non far precipitare l’eloquio, la tessitura di queste opere in una sterile dimensione analitica, rendendole fredde e distaccate in un modo che sarebbe piaciuto molto ad Arnold Schönberg a livello teorico, ma riconducendole a un tipo di approccio che scava attraverso il sentimento, poiché Brahms appartiene ancora a chi compone per coinvolgere, per emozionare, per trasmettere non solo musica ma anche attraverso la musica. E la cartina al tornasole di ciò viene idealmente reso da Ali Hirèche nella Variazione XVI dell’op. 9, dove il suono assurge sempre più a una dimensione trasfigurativa in perenne mutamento, grazie a un controllo timbrico capace di enunciare l’immanente sotteso impregnato in ogni nota.
A livello di presa del suono, Joel Perrot ha saputo restituire molto bene la dinamica e, soprattutto, la microdinamica (i ppp dell’op. 21 & dell’op. 9 possono essere apprezzati degnamente), con una naturalezza e con una velocità capaci di esaltare i transienti; il palcoscenico sonoro riproduce correttamente la profondità e l’altezza dello spazio fisico, così come l’equilibrio tonale e il dettaglio danno modo all’ascoltatore di cogliere il timbro nei registri acuto e grave e la matericità dello strumento in modo veritiero.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – Piano Variations
Ali Hirèche (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00178
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5